La guerra continua mentre finisce. Finisce per alcuni con una morte ancora quotidiana, per altri con un inaspettato ritorno. Mentre la Siria affronta la sua ultima dissoluzione letale e avanza l’operazione turca “ramo d’ulivo” ad Afrin e provincia contro i curdi, l’assedio di Ghouta est affama e uccide centinaia di civili, come rende noto l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus). Altri ne muoiono per le bombe che cadono su Damasco. Nei territori tornati sotto controllo, invece, alcuni dei figli dei militanti dell’Isis, ormai sconfitto nelle sue vecchie roccaforti, tornano a casa. Secondo gli ultimi dati, ci sono 5mila persone, tra bambini e familiari dei terroristi, ora tra gli orfanotrofi e i campi profughi nel territorio tra Siria e Iraq.
Dopo le macerie siriane dove il loro destino si è incrinato, pochi Daeshis, – come li chiamano, cioè i familiari dei miliziani del Daesh, lo Stato Islamico -, devono ricominciare una nuova vita. Alcuni sono apolidi, figli delle vedove o delle mogli di quelli che chiamavano “i leoni del Califfato”: si calcola che circa 5mila bambini siano nati dai matrimoni dei foreign fighters con donne del luogo o straniere che si sono unite al regno di Al Bagdhadi che non esiste più.
Alla fine dell’anno scorso le Nazioni Unite si sono espresse: «l’Unhcr è preoccupata per il destino dei bambini e il rischio di apolidia» e ha fatto pressione affinché venissero «registrate le nascite dei bambini a cui va assicurata una nazionalità. È vitale per permettere a queste giovani vittime di guerra, che hanno già assistito a tanto dolore, di risiedere legalmente in un Paese, con un senso di identità e per la società a cui appartengono, per andare a scuola, sviluppare il loro potenziale, per un futuro costruttivo e di pace».
Sul destino di questi bambini si accende il dibattito. Hans Georg Maasen, a capo dell’intelligence tedesca, ha messo in guardia su eventuali rischi. La Francia ne ha rimpatriati 66, che hanno ricominciato una nuova vita con delle famiglie adottive o con parenti alla lontana, mentre alcuni, già più che adolescenti, sono finiti in prigione. Nel Regno Unito il dibattito è ancora aperto, 800 jihadisti erano inglesi e se non sono morti durante il conflitto, tenteranno di tornare indietro, nella vecchia patria, forse per commettere nuovi attentati. Sui bambini però ancora nessuna decisione ufficiale è stata presa. Un rapporto di Frontex solleva il problema ancora della sicurezza di fronte all’arrivo di donne e bambini provenienti dalle zone di guerra.
Se l’Europa non va di fretta nel riaverli indietro e la questione della gestione del loro ritorno rimane aperta, c’è un Paese che più degli altri, li fa tornare a casa. Non tanto Mosca, quanto Grozny, capitale della Cecenia, vuole che i bambini musulmani vengano salvati. È una questione che anima il dibattito pubblico. Dalla Federazione russa oltre 2500 musulmani – soprattutto da Cecenia e Daghestan – sono partiti per unirsi alle file dell’Isis e molti hanno costretto mogli e figli, spesso contro la loro volontà, a seguirli. Dai 70 ai 120: sono i bambini ceceni che vivono ancora in Siria, secondo Kadyrov. Ogni bambino che torna a casa in Cecenia è una vittoria del leader da pubblicizzare in tv agli occhi dei suoi cittadini. Sono 400 i minori di origine russa tra Siria e Iraq, secondo Anna Kuznetsova, commissario dei diritti dei bambini, e sono un’eredità non reclamata che il Califfato si è lasciato indietro mentre retrocedeva dalle posizioni conquistate. In Russia finora sono tornati 71 bambini e 26 donne dallo scorso agosto: “cos’altro dovremmo fare, aspettare che qualcuno di nuovo li recluti?” ha detto Ziyad Sabsabi, senatore russo che gestisce il programma dei rimpatri. “I bambini hanno visto cose orribili, ma se cambiano ambiente, con i loro nonni, cambieranno subito anche loro”.